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Le recensioni di Bruno Elpis

Morte di un uomo felice di Giorgio Fontana (i-libri)

coverMorte di un uomo felice”, il romanzo di Giorgio Fontana che ha vinto il premio Campiello 2014, si apre con una scena di grande potenza drammatica: come reagisce il figlioletto di una vittima del terrorismo di fronte all’assassinio del padre?
Il piccolo Luigi Vissani ha una reazione istintiva e idee molto chiare se pensa all’assassino di suo padre: “Lo ammazzerei, disse. Lo ammazzerei con le mie mani”. 

A questo desiderio impulsivo di vendetta si contrappone il protagonista, Giacomo Colnaghi, magistrato che indaga sullo stragismo che – dopo il decennio degli anni di piombo – vive i suoi ultimi, sanguinosissimi sussulti agli inizi degli anni ottanta.
Colnaghi ha una matrice cattolica (“E questo ve lo dico da padre e da cristiano”), tanto più verace in quanto affonda le radici in un’esperienza personale tragica (“Conosco la tua rabbia, avrebbe voluto dirgli Colnaghi; la conosco alla perfezione…”) di orfano (“Che bambino sarebbe stato, con a fianco suo padre?”). 

Il romanzo alterna il racconto dell’impegno professionale  (“Una volta il suo capo gli aveva proposto una scorta, ma l’aveva rifiutata…”) nella lotta al terrorismo (“nell’ultimo anno aveva prodotto una cartografia delle Br e di Prima Linea e di tutte le altre organizzazioni che con il tempo si erano sovrapposte”) alla descrizione della dimensione privata di Giacomo (“Così Colnaghi aveva iniziato una vita da universitario fuori sede – da scapolo diceva lui – con una decina d’anni di ritardo”) e alla ricostruzione delle ultime fasi della vita del padre Ernesto, giovane operaio impegnato nell’opposizione al regime fascista con azioni di disturbo. 

L’ambientazione tra Milano (“Ecco quelle strade, dal limitare di Lambrate al deposito dei tram…”), Saronno e dintorni viene interpretata con espressioni dialettali (“un strolegh del genere”) e usanze (“tressette ciapa no”) molto evocative e realistiche per i lombardi. 

I fatti di fantasia si alternano a inserti di storia contemporanea, che presuppongono una solerte ricostruzione degli eventi (“gli ottantacinque morti della strage della stazione di Bologna, che agli avevano ricordato a quale livello di atrocità potessero giungere i terroristi neri”), del pentitismo (“Patrizio Peci, il primo pentito delle Br”) e della strategia della tensione (“E poi le vittime dei rossi: Vittorio bachelet, Girolamo Minervini, Nicola Giacumbi… Guido Galli”) che ha insanguinato il periodo post ‘68 trasformando l’Italia in una polveriera di tensioni politiche e sociali. 

Ma l’impostazione prevalente del romanzo rimane di stampo esistenziale: a indagare sull’interiorità (“un uomo solo di fronte al proprio Dio”), sul senso dell’assenza (“era solo una frase, sempre la stessa, ma valeva tutte le parole del mondo”), su un atteggiamento ad ogni costo positivo (“Non capisco come fai a essere così contento”) con il quale Colnaghi si aggrappa a principi (“Noi non dobbiamo essere gli uomini dell’ira”) e convinzioni (“Eccezioni sempre, errori mai”), regolarmente sconfessate dai fatti (“Il tempo è galantuomo”).
E in questo, a parer mio, risiede la grandezza del romanzo, che si segmenta dal saggio storico e pratica la via più artistica della creazione per rappresentare contraddizioni e misteri della vita. 

Nel finale – potentemente drammatico quanto l’incipit -confluiscono due epiloghi: la convergenza di due rette parallele, padre e figlio, destinate a incontrarsi all’infinito, cioè forse condannate a non incontrarsi mai. Nell’insondabilità del destino umano. 

Bruno Elpis 

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