logotype
Bruno Elpis Bruno Elpis Bruno Elpis Bruno Elpis Bruno Elpis

Le recensioni di Bruno Elpis

Chiedi alla polvere di John Fante (qlibri)

Vacci piano Arturo; hai dimenticato le arance 

Chiedi alla polvere” di John Fante fu pubblicato nel 1939: “un anno di spietata competizione… assieme a Via col vento, Il mago di Oz, Ombre rosse, escono libri come Furore, Il giorno della locusta, Il grande sonno” (dalla prefazione di Emanuele Trevi). Competizione, questa, che il Fante oggi vince, come dimostra il successo postumo che all’autore viene oggi tributato sulla spinta di Bukowski. 

Terzo episodio della saga di Arturo Bandini, “Chiedi alla polvere” narra le vicende dell’alter ego di John Fante, che – giunto a Los Angeles (“Avevo vent’anni, allora”) – deve fare i conti con i sogni di vagheggiata gloria letteraria e con un’esperienza amorosa dall’esito decisamente infelice: Bandini s’innamora di Camilla Lopez, inserviente del Columbia Buffet in Spring Street (“Lei era una principessa maja e quello era il suo castello”), che  non lo ricambia affatto e, piuttosto che abbandonarsi al sentimento per il promettente Arturo, preferisce rifugiarsi nell’erba che regala i viaggi e le evasioni artificiali celebrate da Baudelaire.
Nell’emotività giovanile (“Mi buttai sul letto e piansi lacrime che mi salivano da profondità inesplorate”), il percorso sentimentale di Bandini passa attraverso le insicurezze delle prime incerte prestazioni sessuali, le baruffe verbali con l’amata, il rimorso per l’incontro clandestino con un’ebrea (“Sulla cassetta delle lettere c’era scritto Vera Rivken”), il rifiuto dell’esotica e meticcia Camilla, che “aveva stracciato il sonetto di Dowson, aveva mostrato il mio telegramma a tutti gli avventori del Columbia Buffet. Mi aveva fatto fare la figura dell’idiota, giù alla spiaggia. Dubitava della mia virilità e da questo dubbio nasceva il disprezzo che le leggevo negli occhi”. 

Particolarmente efficace è l’ambientazione bohemienne nella stanza d’albergo (“Udii bussare ma non mi mossi, temendo che fosse la padrona venuta a riscuotere il suo sordido affitto”), ove l’ondivago e vulnerabile Bandini  coltiva i propri sogni in colloquio quotidiano con la foto dell’editore Hackmuth, intesse un rapporto alterno con lo strambo vicino Hellfrick (“Predatore di latte… Eccolo il genio effimero, lo scrittore di un’unica storia: nient’altro che un ladro”), condivide gli spazi vitali con il topo Pedro… 

E veniamo alla polvere del titolo, così ben definita da John Fante nel prologo posposto al romanzo… io ho seguito le particelle pulviscolari per tutto il romanzo…
La polvere è sulla palma che Bandini vede dalla finestra dell’albergo (“il suo tronco crostoso era soffocato dalla polvere e dalla sabbia che il vento portava dal deserto Mojave e da quello di Santa Ana”), è nell’aria di Los Angeles (“il mio naso… annusava il deserto e la polvere assopita, là in cima a Bunker Hill”), è disseminata su oggetti (“le tazze erano polverose”), cose (“le riviste sul tavolo, dove rimasero a prendere la polvere”) e luoghi (“ci avviammo lungo un corridoio buio e polveroso”), la si trova “lungo le scale polverose” e si deposita ovunque (“con la polvere di Chicago, di Cincinnati, di Cleveland sulle scarpe…”).
Ma rappresenta l’origine di Bandini (il Colorado: “ora sono vecchi e stanno morendo sotto il sole e nella polvere calda delle strade, mentre io sono giovane e pieno di speranze…”), il percorso che lo scrittore in erba tenacemente calca (“Strati di polvere del Wyoming, dello Utah e del Nevada mi si erano depositati fin nei capelli e nelle orecchie”), il punto di arrivo al quale perviene Arturo (“La polvere inquieta di Los Angeles gli metteva addosso la febbre”): una realtà dalla quale purificarsi (sull’oceano “respirammo a fondo l’aria pulita, senza polvere”) o allontanarsi (“niente Los Angeles, niente strade polverose, squallidi alberghi…”), è lo stesso.
La polvere divampa nel cataclisma con il senso di colpa (“Era un terremoto. Ero stato io. Era mia la colpa”), si propaga (“Si levò la polvere e si udì un rumore di crolli”), aleggia (“Grandi nuvole di polvere avvolgevano tutto”) e occupa ogni spazio (“Dissi una preghiera, ma era come polvere nella mia bocca”).
La polvere rappresenta la realtà (“La città che giaceva sotto di me, immersa nella caligine polverosa del tardo pomeriggio”), ma anche il nostro destino (“Il mondo era polvere e sarebbe tornato polvere”)… E domina il prologo: “Chiedete alla polvere della strada, alla polvere del Liberty Buffet, a quella dannata segatura polverosa, e vi dirà che sì, arrivano certi pezzettini di carta ed erano i miei sonetti, tanto a quella non gliene importava niente di me, la divertivo e basta, ma era pazza di quell’americano di Sammy.” 

Bruno Elpis 

http://www.qlibri.it/recensioni/romanzi-narrativa-straniera/discussions/review/id:46608/