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Le recensioni di Bruno Elpis

I giorni dell’abbandono di Elena Ferrante (qlibri)

coverThe coldest days of my life 

Chi se la ricorda la canzone anni settanta dei Chi-Lites?
Potrebbe fare da colonna sonora a questo romanzo, con il quale
Elena Ferrante ci getta nel vuoto. Lasciando un senso di assenza, di mancanza, di inadeguatezza. Di estraniazione e di estraneità.
Fin dalle prime pagine irrompe sulla scena – personaggio solitario e abbandonato – Olga. Moglie e madre di due figli, è stata improvvisamente lasciata dal marito (“tranquillo per anni, senza un solo attimo di disorientamento, e poi all’improvviso scombussolato da un niente”): Mario le ha preferito una donna più giovane e si è allontanato dalla famiglia per “un improvviso vuoto di senso”.
Con questo distacco si apre il periodo doloroso de “I giorni dell’abbandono”, durante il quale la protagonista viene risucchiata nella disperazione che si manifesta innanzitutto in anoressia (non in senso patologico), insonnia e disattenzioni che potrebbero risultare fatali.

Nella confusione emotiva, con lo stato d’animo e l’inconcludenza del perdente, Olga cerca di analizzare le cause (ma ve ne sono? Ed erano prevedibili?) della sua condizione: la dignità perduta, la prigionia nel ruolo familiare, il desiderio di una donna napoletana di adeguarsi alla vita torinese, più riservata e contenuta, più ragionata e meno impulsiva di quella che caratterizza la sua città di origine.
Poi Olga si propone di reagire: nel palazzo semivuoto (la vicenda si svolge in agosto) vive un musicista solitario e introverso. Con lui “l’abbandonata” tenta di stabilire un contatto, ma la vicenda ha il sapore della forzatura: la relazione è un accostamento ragionato e premeditato di due solitudini piuttosto che un’unione sotto l’insegna del trasporto sentimentale; è imitazione dell’amore tra i residuati della rabbia e le rovine dell’esperienza trascorsa.
Per tutto il romanzo si respira il disagio: nel compatimento  degli amici, nei maldestri tentativi di Olga di truccarsi e travestirsi, nel rapporto con il cane Otto.
Quando si accende un barlume (“Devo reimparare il passo tranquillo di chi crede di sapere dove sta andando e perché”)  è troppo tardi per il lettore: annichilito dalla tristezza dei giorni dell’abbandono, quasi non riesce più a credere che “un sussulto di gioia, una fitta di dolore, un piacere intenso, vene che pulsano sotto la pelle” possano rappresentare un lieto fine, perché "non c’è nient’altro di vero da raccontare”...

Bruno Elpis

http://www.qlibri.it/recensioni/romanzi-narrativa-italiana/discussions/review/id:36210/