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Le interviste di Bruno Elpis

Intervista a Marilena Guglielmi ("Io scrittore")

Questa è la prima delle interviste realizzate per la rubrica "Io scrittore", il concorso che vede la testata web www.i-libri.com, con la quale collaboro, affiancata al gruppo editoriale Mauri  Spagnol.

CINQUE DOMANDE A MARILENA GUGLIELMI

Hai visto il film “Anna dei Miracoli”? Cosa ne pensi del mio paragone?

Confesso la mia ignoranza, ma ho subito rimediato. Non avevo mai visto “Anna dei miracoli” e mi è sembrata l’occasione buona per farlo. Cosa penso del paragone? Penso che ciò che accomuna le due storie è la similitudine tra le due donne, Anna e Maria, che cercano una soluzione con le sole armi in loro possesso: l’amore, l’inventiva, il coraggio di brancolare nel buio senza paura di picchiare contro gli spigoli, e soprattutto la tenacia, il desiderio di non arrendersi. “In tutto il mondo non c’è nessuno che mi dica come posso raggiungerti!” Questo è il senso di solitudine che provano, di fronte al compito immane che devono portare a termine con le sole forze a loro disposizione. E in entrambi i casi il “miracolo” si compie attraverso l’acqua. Ma il bambino del bosco di querce ha un problema, se proprio vogliamo chiamarlo così, molto più impalpabile e inafferrabile. Lui non urla o strepita; sta zitto e a spesso ha lo sguardo sfuggente, ma può anche apparire simile a tutti gli altri, e la differenza non salta agli occhi, quando lo vedi giocare sulla giostra con suo fratello, quando ti accorgi che piange un po’ troppo di rado e non fa mai capricci. Forse è soltanto molto chiuso, molto timido? No, non è così. La sua sofferenza è silenziosa e potrebbe anche passare inosservata: questo è il vero pericolo. Penso a tutti quei bambini che hanno una diversità e ne soffrono, perché il mondo in cui viviamo non è fatto per loro. E spesso i genitori e gli insegnanti non lo sanno o non lo vogliono sapere. Ciascuno incontra in se stesso delle enormi resistenze, prima anche solo di ammettere che suo figlio non è come gli altri. Un bambino gravemente autistico, se aiutato in tempo, può diventare un caso lieve. Ha bisogno che gli si insegni a comunicare: ciò che per gli altri è facile e istintivo, lui deve e può apprenderlo. Non sarà mai come gli altri, perché è neurologicamente diverso, ma questo non significa che sia malato, o inferiore. Esiste un rovescio della medaglia: lui sarà, a sua volta, capace di cose che gli altri dovranno apprendere con fatica.

 

E cosa pensi del riferimento alla “Solitudine dei numeri primi”? Ti ci ritrovi?

Nel mio libro i personaggi faticano a comunicare o non ci riescono affatto, i due coniugi si allontanano inesorabilmente l’uno dall’altro proprio quando avrebbero maggiormente bisogno di sostenersi a vicenda. Qualche giorno fa ho letto un commento al mio romanzo, scritto da un anonimo lettore, che mi è piaciuto molto, e di cui cito il titolo: “La normalità non è una categoria umana”. Quanti di noi sono “numeri primi”, destinati a una dura lotta se vogliono uscire, almeno ogni tanto, dalla propria solitudine?

Alcuni capitoli del tuo romanzo sono poesie. Altri sono pagine del diario di una madre che, nonostante tutte le difficoltà, non smette mai di lottare per il suo, anzi per i suoi bambini. Quanto ti identifichi in Maria?

Lo spunto del romanzo è autobiografico; tuttavia un romanzo non è un’autobiografia. In particolare non lo è questo romanzo, dove quattro personaggi esprimono il loro punto di vista. Ho dovuto guardarli e studiarli dall’esterno e, nello stesso tempo, imparare a immedesimarmi in ciascuno di loro, per riuscire a dargli una voce. Per cui, sì, mi identifico facilmente in Maria, ma anche negli altri tre. Ai tempi in cui i miei figli erano bambini si sapeva poco della Sindrome di Asperger. Ora si sa molto di più: ad esempio, che è ereditaria. E non posso fare a meno di riconoscermi, bambina, in molte caratteristiche di Giovanni. La grande differenza sta nel fatto che io parlavo troppo. Non per questo ero capace di comunicare.

Ho trovato entusiasmante la parte in cui Maria escogita sistemi e giochi per stimolare i progressi di Giovanni. Che esperienza hai in questo ambito?

La parte dei giochi è forse è una delle più fedeli alla realtà che ho vissuto io. Come si legge nella storia, avevo incontrato uno psichiatra secondo cui ero l’unica persona al mondo che poteva aiutare mio figlio. E’ stato anche il primo a dirmi, in anticipo sui tempi, che l’autismo non è necessariamente una malattia. Ho seguito il suo consiglio e non me ne sono mai pentita: ho fatto appello alla mia immaginazione, alla creatività, e all’istinto. Benedico i progressi della scienza e della psicologia, e sono felice che si sappia sempre di più sulla neurodiversità. Ma spesso l’istinto di una madre è insostituibile. L’ideale è quando scienza e amore lavorano fianco a fianco, per uno stesso fine.

Marco è “di acqua”, Giovanni “d’aria”, Luca, il marito, “di terra”. E Maria? E Marilena? Qual è il loro elemento? Forse il fuoco?

Sono la terza di quattro figli; mia madre ha usato per prima la similitudine dei quattro elementi, in una poesia che scrisse quando eravamo bambini, nel tentativo di raccontare le nostre particolarità. Secondo lei io ero il fuoco. Mi credi, se ti dico che non le avevo mai domandato il perché? Eppure mi sarebbe piaciuto saperlo anche prima. Gliel’ho chiesto oggi, dopo tanti anni. Mi ha risposto: “Tu assomigli al fuoco perché sei ribelle, imprevedibile e incontrollabile. Ma sei anche una persona passionale, che sprigiona calore umano.”

Abitavamo in un bosco di querce, Marilena Guglielmi su i-libri

 

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Autrice de Abitavamo in un bosco di querce