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Innominabile

unamableIn questo, come in altri racconti, Lovecraft è narratore sotto il nome di Carter.
La storia è ritenuta autobiografica: interpreta il sentimento di chi si sente sottovalutato dai contemporanei per il genere letterario che pratica. Un genere – l’horror - che obbliga a vedere le proprie opere confinate su riviste e pubblicazioni ritenute di second’ordine.
Cimiteriale l’ambientazione, sorprendente la normalità con la quale si ritiene che un sepolcro sia luogo adatto per discutere amabilmente: “Era tardo pomeriggio, in un giorno d’autunno, ad Arkham. Sedevamo su una tomba in rovina del diciassettesimo secolo, nel vecchio cimitero, e speculavamo sull’innominabile”.
Già nell’incipit si respira il gusto per il macabro. E l’interesse per l’incognito. O l’indicibile.

Emanato dal cervello morto di un ibrido mostruoso, un orrore di questo genere, di questa informe vaghezza, non sarebbe veramente l’innominabile?” 
Con queste premesse e in questo clima, provocare “l’innominabile” equivale a evocarlo.
L’evocazione non può che essere traumatica. I due amici riprendono possesso delle loro facoltà soltanto in ospedale. Sono confusi e storditi, ma hanno finalmente una nozione sull’ente evocato: “Era dappertutto, un fango, una gelatina … eppure aveva forma, mille forme orrende che non riesco a ricordare. Aveva occhi … e uno era coperto dalla cataratta. Era l’abisso, il maelstrom, l’estremo abominio. Carter, era l’innominabile”.

Bruno Elpis

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